lunedì 30 giugno 2008

La magia degli occhi




“…la percezione e la rappresentazione degli occhi.
‘E immediatamente evidente che gli occhi reali non possono essere riprodotti attraverso le immagini. Gli occhi che vedono sono in costante movimento, le pupille si espandono e si contraggono, il colore tende a cambiare con la luce, l’umidità varia; anche le palpebre e i contorni modificano incessantemente l’aspetto dell’occhio.
Senza questa influenza, l’”arte” del trucco non sarebbe mai nata. Il contesto trasforma l’aspetto dell’occhio, anche se è quasi impossibile prevedere in anticipo la natura di tale trasformazione. Esperienza, tradizione e un processo di tentativi ed errori contribuiscono a indicare all’esperto di trucco i mezzi per creare l’”aspetto gentile”.[fig.107]. Nel vederlo, lo riconosciamo perché le corde della nostra risposta sono state toccate nel modo giusto, ma ciò che percepiamo è il significato, non i mezzi.
Questa reazione immediata è talmente preponderante che risulta avvilente scoprire quanto sia difficile rispondere a domande specifiche sulla forma e l’aspetto dell’occhio umano. Naturalmente, tale difficoltà non sarà sentita dagli oftalmologi, né dagli artisti formatisi alla maniera tradizionale, ma la maggior parte di noi esiterà di fronte alla richiesta di disegnare una sezione orizzontale della testa (fig. 108) all’altezza dell’attaccatura del naso, indicando la conformazione esatta delle orbite. Emerge allora che abbiamo nella nostra mente una immagine schematica della posizione degli occhi quando essi sono visti frontalmente e un’altra, meno accurata, del loro profilo, ma per la maggior parte delle persone è difficile visualizzare con precisione il passaggio da una visione all’altra, benché sia un’esperienza che facciamo costantemente. Confesso di dover toccare gli angoli dei miei occhi per essere pienamente consapevole del loro rapporto spaziale.
Questa tendenza a ricercare il significato anziché a registrare l’aspetto reale del mondo è stato un tema costante degli educatori artistici che intendano modificare il nostro atteggiamento. Non negherei neanche per un momento che scoprire il vero aspetto delle cose imparando a disegnare o studiando arte possa essere un’esperienza eccitante e liberatoria, ma sono incline a mettere in discussione l’assunto che la ricerca del significato sia semplicemente una forma di pigrizia mentale. Non saremmo in grado di operare in assenza di questo principio vitale che Bartlett chiamava “la tensione verso il significato”.
Io ritengo che questo principio faccia parte del nostro retaggio biologico. Non sappiamo se la nostra reazione agli occhi sia innata (come sospetto) o appresa attraverso una sorta di imprinting precoce, ma è evidente che la capacità di riconoscere gli occhi, e persino la direzione dello sguardo dei nostri simili è di grande utilità per la sopravvivenza. ‘E essenziale saper quando e come veniamo guardati per rispondere adeguatamente alla minaccia o all’invito di un’altra creatura. […] questa vantaggiosa consapevolezza ha portato anche altre specie a reagire alla configurazione standard di due occhi, che potrebbe servire come segnale di avvertimento della presenza di un predatore in agguato. Ciò spiegherebbe la frequenza con cui certe falene hanno ali segnate da “occhi”, il che sembra dissuadere gli uccelli dall’avvicinarsi. Quando tali segni sono artificialmente offuscati, le falene vengono più spesso divorate dai predatori.
Nemmeno chi non è comportamentista si azzarderebbe a dire che i segni sulle ali hanno prodotto una illusione negli uccelli, se per illusione intendiamo uno stato di coscienza o una falsa credenza. Molto probabilmente, l’uccello viene stimolato a reagire senza la possibilità di una riflessione conscia. Ma proprio questo è il punto: la reazione precede la riflessione, sia dal punto di vista filogenetico sia da quello psicologico. Ciò che ci distingue dagli animali non è l’assenza di risposte automatiche, ma la capacità di investigarle e sperimentarle.
Ho fatto ricorso a questo metodo nella Storia dell’arte, dove chiedevo al lettore di disegnare su un foglio un volto senza occhi e osservare poi la sensazione di sollievo che si prova quando si aggiungono, in un secondo momento, due puntini che gli permettano di guardarci. Quando ho scritto questo libro, non conoscevo ancora tutto il peso dei dati antropologici che mostrano la forza e l’immediatezza di questo tipo di reazione. Nello Sri Lanka l’atto di dotare di occhi una statua del Buddha è vincolato da una serie di tabù, perché si ritiene che nel dipingere gli occhi l’artigiano infonda vita nell’effige. L’effetto suscita un timore reverenziale, al punto che neanche allo stesso artigiano è consentito di guardare mentre questa trasformazione miracolosa ha luogo. Egli dipinge gli occhi stando di spalle rispetto alla statua e controlla l’operazione in uno specchio; a nessun altro è permesso di assistere alla cerimonia. Una volta terminato l’atto sacro, l’artigiano deve purificarsi e, se omette queste precauzioni, si esporrà a sanzioni sovrannaturali. Richard F.Gombrich, a cui devo questo resoconto, sottolinea la paradossalità della situazione. Qualunque buddista sa che il Buddha è entrato nel Nirvana e si è perciò liberato dalla ruota dell’esistenza. Razionalmente, dunque, l’immagine del Buddha non può essere altro che un simulacro in grado di celebrare il ricordo del grande maestro. Ma l’uomo non è soltanto un essere razionale, e così reagirà affettivamente all’immagine come se fosse possibile guardarla negli occhi. Il rituale attesta la forza di una illusione che viene esplicitamente negata dalla dottrina cognitiva che l’accompagna.
Eppure, l’illusione non riguarda la realtà visiva, bensì il significato: gli occhi sembrano donare la vista all’effige. Ma non è esattamente questa la reazione che abbiamo quando guardiamo gli altri esseri umani? Li vediamo guardare. Anche se razionalmente sappiamo che non vi è alcuna differenza nell’aspetto esterno fra un occhio vedente e uno cieco, e che persino un occhio di vetro può ragionevolmente simulare tale aspetto, sono pronto a sostenere che è falso e non corrisponde all’esperienza il dire che qualunque occhio appaia come un globo vitreo. Compito dell’artista non è dunque necessariamente riprodurre un facsimile dell’occhio, ma piuttosto trovare il modo di stimolare la risposta in uno sguardo vivo.
Differenti stili hanno adottato mezzi assai diversi per risolvere questo problema, a cui spesso si aggiungono i tabù menzionati sopra. Sarebbe certamente interessante, alla luce di queste considerazioni, indagare la varietà di mezzi con cui l’occhio umano è stato reso nella storia dell’arte.
Vi sono ampie prove nella storia della scultura che documentano le difficoltà sperimentate dagli artisti nel modellare correttamente un volto a tutto tondo. Le orbite sono di frequente inserite in un viso appiattito e non mancano i profili schiacciati. Per quanto riguarda la forma dell’occhio, vi è una intera gamma di possibilità, dal semplice puntino all’occhio artificiale di un pupazzo di cera. Ciò che può sembrare strano allo storico dell’arte è fino a che punto alcune convinzioni adottate in certi periodi o da certi artisti contraddicessero l’aspetto reale. La tradizione giottesca prediligeva occhi obliqui, che sembrano quasi a mandorla; Poussin (fig. 112), invece, dava un tale risalto al contorno degli occhi che le sue figure spesso presentano lo sguardo fisso e vuoto delle statue classiche che tanto ammirava. Ci è impossibile indovinare in che modo tali deviazioni dalla realtà fossero accolte dai contemporanei degli artisti non essendo abituati a soluzioni alternative. Utilizzando l’espressione che ho riportato sopra, si potrebbe dire che abbiamo acquisito una diversa
“impostazione mentale” attraverso l’”assuefazione culturale”, per cui non reagiamo più spontaneamente alle rappresentazioni degli occhi. Proprio perché la nostra risposta non è più spontanea, vediamo questi occhi non tanto come tali quanto come forme lievemente strane sulla tela. […] la scoperta della possibilità di aggiungere un lampo di luce all’occhio facendolo brillare accrebbe la forza d’attrazione dell’immagine. […] il metodo più stupefacente è quello escogitato dallo scultore settecentesco Houdon. Il marmo è naturalmente ancora meno capace dei pigmenti di imitare l’aspetto di un occhio vero; così egli ricorse all’audace espediente di inserire un pezzo di pietra sporgente per rappresentare il lampo dell’occhio. (fig. 115). […] Quanto più un maestro riesce a convincerci che l’immagine ci guarda, tanto più è improbabile che ci rendiamo conto di cosa effettivamente componga l’immagine stessa. L’artista ha trasformato l’immagine in una presenza vivente.
Potremmo dire che gli occhi sembrano reali, sebbene gli occhi reali non somiglino affatto alle relative rappresentazioni. Sono consapevole del fatto che, sul piano logico, questa proposizione è assurda. Se a è uguale a b, anche b deve essere uguale ad a. Altrove ho sostenuto però che questa relazione simmetrica non descrive ciò che percepiamo come somiglianza nell’arte. Mi sono spinto oltre col suggerire la seguente formulazione: il mondo non somiglia a una rappresentazione, ma quest’ ultima può somigliare al mondo. La parola chiave è, naturalmente, “somiglianza”. A mio avviso, siamo meno consapevoli dell’aspetto delle cose che della nostra risposta ad esse. Se certe configurazioni percettive possono davvero “innescare” specifiche reazioni perché ciò fa parte della nostra eredità biologica, è chiaro che tali reazioni sono adeguate alla sopravvivenza nel mondo reale, non alla contemplazione delle immagini. Se ho ragione a sostenere che anche sotto questo aspetto siamo più affini agli animali di quanto il nostro orgoglio sia disposto ad ammettere, ciò porta a supporre che, proprio come gli animali, non conosciamo e non abbiamo necessità di essere consapevoli dell’apparenza reale del mondo. Di primo acchitto potrebbe sembrare che una simile consapevolezza sia necessaria all’artista che voglia ottenere una configurazione alla quale l’osservatore reagisca come se fosse un aspetto della realtà. In Arte e illusione ho dimostrato che anche questa conclusione non corrisponde a verità: persino l’artista deve procedere a tentoni, per tentativi ed errori, fin quando non scopre la configurazione che produce la risposta desiderata.
Tale risposta non è necessariamente visiva, ma, chiaramente, può esserlo. Non è difficile convincersi che vediamo più cose nell’immagine dell’occhio che è sulla tela di quante ve ne siano nelle pennellate dell’artista. In altri termini, la risposta al significato indirizza la nostra proiezione, e noi crediamo di vedere forme e colori che in effetti non sono presenti…”. (Sentieri verso l’arte. I testi chiave di Ernst H. Gombrich. E.H.Gombrich- Leonardo Arte, Milano, 1997.)

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